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Alberto Sinigaglia E' presidente dell'Ordine dei Giornalisti del Piemonte, della Fondazione Filippo Burzio, del Consiglio scientifico della Fondazione Cesare Pavese e del Comitato dei Garanti del Polo del '900. Nel 1970 si trasferisce a Torino , dove viene assunto come redattore a La Stampa da Alberto Ronchey , dapprima nella redazione di politica interna. Passato alla Terza pagina del quotidiano, guida il gruppo di giornalisti che fonda il supplemento culturale settimanale Tuttolibri , per poi essere promosso a caporedattore delle pagine culturali del quotidiano. Ha scritto e condotto programmi radiofonici e televisivi per la Rai quali Addio al Novecento su Radio Tre , Fatti di famiglia, Quarto potere e Vent'anni al Duemila su Rai 3 e Storia su Rai Sat 1 . Dirige i Classici del giornalismo di Aragno Editore ed è Direttore Scientifico del Festival Passepartout di Asti. Ripartenza migliore, per Identità , non si poteva sperare. Grazie Alberto! MDB QUATTRO PONTI DI FEDE E QUEL “MIDOLLO DI LEONE” Non c'è mai stato tanto bisogno di giornalismo. Una diffusa malattia della società è l'illusione di essere informata. Chi crede di poter nuotare senza salvagente nel mare della comunicazione rischia di bere acqua nociva: di prendere per vere notizie false, per utili ricette pericolose, per fonti affidabili trucchi mediatici sapientemente manovrati, fake news, bugie. La missione dei giornalisti è cercare la verità e offrirla ai cittadini. Saperla è un loro diritto, almeno di chi vuole conoscere, comprendere, per scegliere e giudicare. Certo i giornalisti hanno fatto errori e ne fanno, nuotando anch'essi in quel mare. Ecco perché cresce la loro responsabilità. E' la prima parola che ho pensata accogliendo l'invito al “foglio di approfondimento”. La seconda è ponte. I giornalisti sono i ponti tra i politici e il popolo, gli “intermediari” che i populisti non sopportano, denigrano, minacciano. A parlare di responsabilità erano quattro ponti di fede, di cultura e di dialogo incontrati negli anni, ma tutti dotati di “midollo di leone”, come diceva Italo Calvino, legati da una forza del pensare misteriosamente analoga a quella di un vecchio rabbino del dopoguerra a Venezia. Si dicevano “preti” pur essendo un cardinale, un frate poeta e due arcivescovi. Il cardinale era Giovanni Urbani, Patriarca a San Marco dopo Angelo Roncalli. Il frate era padre David Maria Turoldo dell'Ordine dei Servi di Maria, incontrato a Milano dove conobbi anche il cardinal Michele Pellegrino arcivescovo di Torino, professore alla Cattolica. L'altro arcivescovo era Carlo Maria Martini sfiorato a Roma, poi rivisto nei suoi ventidue anni milanesi. Tutti sapevano il greco, il latino e l'ebraico. Si definivano “preti”, sicuri del proprio “lavoro ben fatto”, sebbene sapessero di farlo anche per bigotti che non tolleravano, in nome di dogmi che umiliavano i loro studi e l'assiduo esercizio a ragionare. Nessuno di loro affrontava il Nuovo Testamento senza confrontarlo con il Vecchio. Nessuno di loro ti chiedeva se andavi a messa, ma se avevi capito Mosè, il profeta più amato e citato da Gesù e per tanti aspetti così affine a lui. Non il Mosè della giustizia e della legge, ma “il ponte” e “il responsabile”: l'uomo dei passaggi - simbolo il Mar Rosso - dalla schiavitù alla libertà, da una terra di dolore alla terra promessa; l'uomo della responsabilità nei confronti del popolo, interpretata al punto di morire in solitudine, punito da Dio. Sebbene non sia alto il monte Nebo sul quale si spegne Mosè, discenderlo per tornare al giornalismo procurerà qualche capogiro. Ma del “lavoro ben fatto” tanti giornalisti sono stati orgogliosi come Faussone, il montatore di gru della “Chiave a stella” di Primo Levi. Di essere “ponti” e “responsabili” erano consapevoli Giulio De Benedetti, Enzo Biagi e Indro Montanelli, il più geniale direttore e i due più famosi inviati del dopoguerra. O Carlo Casalegno, il primo giornalista assassinato dalle Brigate rosse. O Gigi Ghirotti che, appena saputo di avere un cancro, propose al suo giornale di impiegare il tempo e le forze che gli rimanevano per fare un'inchiesta sugli ospedali pubblici, in corsia, malato tra i malati. Anch'essi devono aver avuto quel “midollo di leone”. Il giornalismo italiano deve saperlo ritrovare per riemergere da una sindrome pericolosa, della quale non sono i soli colpevoli. Alberto Sinigaglia

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